Premessa 

La grande novità di queste elezioni è che tutte le persone con almeno diciotto anni di età potranno votare il Senato della Repubblica (precedentemente la soglia minima era fissata ai venticinque anni). Tuttavia, la legge elettorale rimane un terreno difficile su cui muoversi, dal momento che prevede molti passaggi ed è un “mix” tra più sistemi. Capirne il funzionamento, in ogni modo, è essenziale per comprendere una serie di problematiche connesse proprio al peso reale del voto di ognuno e non nascondersi dietro una banalizzazione del concetto di “democrazia” 

Cos’è e come funziona la legge elettorale italiana? 

La legge elettorale ora vigente si chiama “Rosatellum-bis”, dal nome del suo ideatore, Ettore Rosato, deputato del Partito Democratico. Prima di passare a delineare le basi del Rosatellum, è utile considerare che queste elezioni saranno le prime dopo il referendum costituzionale del 2020, il quale ha ridotto il numero dei deputati a 400 e il numero dei senatori a 200. Quindi, nello specifico, con che criteri sono eletti i 600 parlamentari?  

Il Rosatellum-bis prevede sia il sistema maggioritario uninominale che il sistema proporzionale plurinominale; il primo decreta che sia eletto solamente, per ogni collegio (ossia le aree in cui il territorio italiano è stato diviso), il candidato che abbia ottenuto più voti (è quindi sufficiente anche un solo voto in più dell’avversario politico per vincere). I collegi uninominali, in totale, sono 221, e quindi 221 sono i candidati eletti in parlamento secondo questo sistema. Gli altri 367 sono invece eletti mediante sistema proporzionale plurinominale, in altre parole vengono considerati i voti guadagnati da ciascun partito per assegnargli i seggi in proporzione proprio ai voti ricevuti. In questo caso non conta dunque chi ha ricevuto più voti in senso assoluto, ma che un partito o una lista ne abbia un numero sufficiente per eleggere in Parlamento i suoi candidati. È chiaro che il sistema maggioritario tende a favorire solo le forze politiche più importanti o presenti in un determinato collegio, mentre con il proporzionale è permesso anche alle forze minori di avere dei posti in Parlamento e rappresentare una parte di paese relativa ai voti ottenuti.  

Dati e parametri 

Cerchiamo di definire le cifre nel dettaglio: un terzo dei seggi (vale a dire il 37% del totale, 147 deputati e 74 senatori) viene assegnato con il sistema maggioritario mentre gli altri due terzi col sistema proporzionale (vale a dire il 61% del totale, 245 deputati e 122 senatori). Tuttavia, sommando i 221 del maggioritario e i 367 del proporzionale il risultato non è 600 (il numero totale dei Parlamentari) ma 588; questo perché i restanti dodici sono eletti solamente dagli italiani all’estero.  

Il sistema proporzionale è quello più complicato da capire, soprattutto perché prevede dei parametri da rispettare affinché una lista o un partito possano eleggere i loro candidati in Parlamento. In particolare, questi parametri sono chiamati soglie di sbarramento, cioè una percentuale minima di voti che bisogna ottenere, e si attestano al 3% per le liste singole (ad esempio il Movimento 5 Stelle) e al 10% per le coalizioni (ad esempio Azione e Italia Viva). 

In estrema sintesi il sistema misto avrebbe lo scopo di agevolare l’entrata in Parlamento sia dei partiti più grandi che di quelli più piccoli, in proporzione ai voti ricevuti. Ciononostante, non sono pochi i problemi che sorgono.  

Quali sono le problematiche maggiori?  

In primo luogo, non sono i cittadini a scegliere i candidati da mandare in Parlamento, e nemmeno possono esprimere una preferenza riguardo l’uno o l’altro candidato di un certo partito. Le liste sono denominate “listino bloccato” proprio perché i candidati sono mandati in Parlamento in base all’ordine in cui sono presentati (se sono in quattro e ottengono i voti solo per tre, salgono i primi tre nell’ordine in cui sono stati iscritti); la legge elettorale non prevede quindi il cosiddetto voto di preferenza. Secondariamente, non prevede nemmeno il voto disgiunto, ossia la possibilità di votare un candidato per il maggioritario e una lista a cui egli non sia collegato per il proporzionale. Quest’ultimo fatto invita i partiti a formare sempre delle coalizioni, le quali poi prontamente si sfaldano una volta arrivati in Parlamento. A tal proposito la Costituzione non impone nessun vincolo di mandato; vale a dire che, una volta eletto, un parlamentare può non rispettare le promesse fatte, cambiare schieramento o addirittura formare un nuovo gruppo, “se l’interesse del paese lo richiede”. È utile sottolineare che dal 2018 circa 300 Parlamentari hanno cambiato schieramento (quasi un terzo del totale!), senza contare chi l’ha fatto più di una volta! 

Da dove si potrebbe partire per cambiare? 

La legge elettorale italiana è molto articolata e non immediata da inquadrare, ma ciò che è certo è che a un’attenta lettura risultano immediati i tanti problemi collegati e che poi, nel corso della legislatura, danno vita a tutti quei fenomeni che portano alla distruzione del governo stesso; iniziare a discutere circa un possibile vincolo di mandato potrebbe essere un possibile punto di partenza al fine di agevolare una politica di qualità e non di quantità, con gruppi disomogenei che si scindono non appena terminano le elezioni. Non meno importante, però, è che l’elettorato (così come tutti i ragazzi e le ragazze che non hanno ancora l’età per votare) acquisti consapevolezza di tutti i limiti che questo sistema impone. 

Dennis Valzon