Era notte, ormai, ma io mi giravo e mi rigiravo nel letto, stropicciando le coperte e strapazzando il cuscino. Roan era sdraiato di fianco a me, perché era il suo turno di dormire nel letto. Il giorno dopo sarebbe toccato a me riposarmi sulla piccola poltrona sotto la finestra, da cui entravano spifferi freddi dall’esterno. Era questo che la mamma e il papà intendevano quando parlavano di problemi economici? Intendevano che non avevamo i soldi per comprare un letto per ognuno di noi? Intendevano che il papà non aveva i soldi per prendere una tuta che impedisse alle api di fargli del male, e allora riparava gli strappi della sua come meglio poteva? 

Mi spostai di scatto e Roan cadde dal letto, con un tonfo. Scoppiò a piangere. – Cos’è stato? Ethan, sei stato tu a spingermi giù? 

Sbuffai. – Non sono stato io, idiota. 

Sì, invece. – mi puntò un dito contro. – Vado a dirlo alla mamma… 

Gli tirai una sberla. – E sai cosa ne frega, alla mamma, delle tue lagne? 

Presi il cuscino e mi coricai sul pavimento. Ecco, adesso non l’avrei più fatto cadere, quel frignone. 

La mattina dopo, quando Grimbald e Roan dormivano ancora, mi alzai e raggiunsi la cucina per fare colazione. Da quella stanza, però, provenivano delle voci. La porta era socchiusa. Mi rannicchiai su me stesso per farmi piccolo piccolo, e rimasi ad ascoltare. 

La mamma era in piedi vicino alla finestra. Il suo volto era illuminato per metà dalla luce blu del cielo, che sbiadiva piano piano per tornare al biancastro del giorno. Il chiarore abbracciava i suoi lineamenti e li rendeva più morbidi, addolcendo l’espressione dei suoi occhi, che adesso sembravano due diamanti sciolti. 

Il papà era seduto sul divano, ma il suo viso era rivolto verso di lei: la accarezzava con lo sguardo, indugiando con dolcezza su ogni sua curva, ogni espressione del suo corpo e del suo volto. – Mi dispiace per ieri sera, davvero. Ma il fatto è che, se anche alzassi un po’ i prezzi, non sarebbe comunque sufficiente. Sai, ci ho pensato bene e… 

Lei si girò: il suo volto venne avvolto dalla semioscurità della stanza. – E? 

Il papà fece un respiro profondo. – Non possiamo più andare avanti così. E se bevessimo l’antidoto? Non ci farebbe più invecchiare e diminuirebbe le nostre preoccupazioni. Potremmo lavorare di più, con meno fatica, non avremmo distrazioni, e questo ci aiuterebbe, senza dubbio… 

Strinsi le dita attorno alla maniglia, ma rimasi paralizzato, con il respiro mozzato nei polmoni e i battiti che mi risuonavano nella cassa toracica come colpi di tamburo. 

La mamma iniziò ad agitare la testa. – No, no, cosa stai dicendo? Fidarsi di quella scienziata, senza nemmeno conoscerla, senza nemmeno… Sarebbe una follia! 

Lui la raggiunse e le posò le mani sulle spalle. Il suo viso non era mai stato così serio. – Ma molti miei amici ci sono andati, e dicono che li ha aiutati un sacco, che la loro vita è migliorata. Anche la maestra di Ethan lo ha fatto, e lui non se ne è nemmeno accorto. Significa che non dà forti effetti collaterali, ma molti benefici. 

La mamma iniziò a camminare per la stanza, disegnando una traiettoria circolare intorno al tavolo. – Ma sarebbe comunque un gesto di empietà nei confronti degli Dei. Equivale a rinnegare la nostra fede in loro, ti rendi conto? 

Il papà puntò gli occhi nei suoi. – Ti ricordi la protesta che è scoppiata alla fine della presentazione dell’antidoto? A cosa è servita? Dopo che Ethan e tuo padre se ne sono andati, tutti si sono messi a gridare che non avrebbero tradito i loro Dei, ma il giorno dopo c’erano già file e file di persone per farsi consegnare quella roba: lo hanno fatto a malincuore, non credere, ma i nostri problemi economici sono troppo grandi per non accettare una proposta simile. Il sindaco ci ha tolto i nostri soldi per quell’antidoto, e l’unico modo per salvarci è berlo. 

La mamma si morse un labbro. – E i sacerdoti? Ai riti ci raccomandano sempre di non bere l’antidoto e scomunicano chi lo fa. Cosa diremo ai nostri figli? Che ciò in cui abbiamo detto loro di credere non vale più, adesso? Cosa penseranno di noi? 

Il papà le prese le mani e le accarezzò, come se fossero fiori sul punto di appassire e perdere tutti i petali, e lui dovesse impedirlo. – È  proprio per questo che berremo l’antidoto: per permettere loro di avere un futuro migliore, e di credere negli Dèi senza che nessun ostacolo si metta tra loro e la fede, senza niente che li costringa a prendere scelte come questa. 

E noi potremo restare con loro per sempre, aiutarli per sempre. – singhiozzò la mamma. Cadde tra le braccia del papà, che la sostenne e la strinse contro il suo petto. – E potremo amarci per sempre. 

Lui la baciò sulla fronte. – Per sempre. Sarà questo che penserò, bevendo l’antidoto. Questo e solo questo. 

La mamma si sforzò di respirare e bagnò il torace del papà con il suo oceano di lacrime. – Andiamo adesso. Ogni secondo è sprecato. 

La mano mi scivolò giù dalla maniglia. Quell’antidoto avrebbe soppresso i loro sentimenti, e tra questi anche l’amore: era un serpente incantatore che, con false promesse, portava a dimenticare tutto ciò che rendeva umani. Il nonno diceva questo, e il nonno non sbagliava. Lui mi aveva insegnato a suonare il violino, mi aveva insegnato a voler bene alle mie emozioni, mi aveva insegnato a vivere. Il nonno non sbagliava mai. 

Quell’antidoto abbassa l’intensità dei sentimenti, sempre di più, ma a furia di abbassare qualcosa lo si spegne. Ethan, non lasciarti ingannare anche tu. – Ogni volta inclinava un po’ la testa, per mantenere il contatto con i miei occhi anche se abbassavo lo sguardo. – E poi… Ho capito perché il sindaco ha comprato tutte quelle dosi di antidoto: c’è sempre un sentimento a motivare le nostre azioni. Senza quello, le persone perderanno anche la volontà e la capacità di pensare, e diventeranno stupide pedine nelle sue mani. È questo che vuole: il controllo,  il comando indiscusso. 

Mi ficcai le unghie nei palmi. “Mamma, papà, no! Non fatelo, non fatelo, vi prego!” Mi sembrò di gridare nel vuoto, di spelarmi la gola, di agitare le braccia per non precipitare, e intanto urlavo, urlavo e urlavo… Ma non mi usciva la voce. Un nodo mi stringeva le corde vocali: aveva il sapore ferroso di una catena. Anche la mamma sapeva che la storia dell’antidoto era una fesseria, perché il nonno lo ripeteva sempre pure a lei. E poi diceva a me di non disobbedire? Lei stava disobbedendo al nonno! 

Avevo in bocca il sapore del sangue e di una ferita nascosta, che mi sprofondava nel petto con una fitta. 

Mi precipitai in camera, presi il violino, spalancai la finestra e mi calai giù. I miei genitori non dovevano accorgersi che ero scappato, o almeno non subito, non in tempo per fermarmi: se non potevo gridare, se non potevo sputare fuori le fiamme che mi mordevano il cuore, sarei corso lontano. 

Risalii il ruscello, superai tutte le grotte e mi immersi nel bosco, come se fosse un fiume in cui affogare. Non provai nemmeno a nuotare e salvarmi: mi lasciai inghiottire da quell’infinità di alberi e cespugli che, sparsi ovunque in modo uniforme, rendevano ogni punto uguale agli altri. Di solito rimanevo ai margini, per non perdermi, ma questa volta andai a fondo, sempre più a fondo. Man mano che avanzavo, il fuoco si faceva intenso, mi sovrastava, e io perdevo il controllo delle mie gambe: ormai si muovevano da sole. 

Quando appoggiai le mani sulle ginocchia, piegato in due da una punta nei polmoni, il crepitio delle fiamme era irregolare ma ritmato, come il mio respiro, come i miei battiti, come la mia vita. – State ridendo di me, vero? –  sogghignai. – Ridete, ridete, mentre tutti vanno a bere quel dannato antidoto! Vi soffocheranno tutte, lo so. 

Qualcosa di liquido mi scese sulle guance. Era sudore? Erano lacrime? Era veleno? 

Ma io vi voglio dentro di me, dannazione! Oh sì, venite… Bruciatemi vivo, se volete, ma venite. Io non sono come loro, non sono un codardo! 

Mi asciugai le lacrime e scrollai le mani: dovevo depurarmi da quello schifo. Le lacrime erano da rammolliti!  Ma una nuova inondazione mi bagnò il viso. Eppure… Era acqua, non fuoco, ma non spegneva il rogo dentro di me, anzi, lo alimentava. Benzina, ecco cos’era! Io piangevo benzina. Ero come una candela: non mi sarei spento fino a quando le fiamme non avrebbero bruciato tutto il mio corpo e non avrebbero più avuto niente da divorare. 

Ho tredici anni, maledizione, ho tredici maledetti anni, e gli altri sono grandi e grossi ma… Sono dei grandi stupidi, ecco cosa sono! Invece io sono pronto. – Spalancai le braccia. – Colpisci al petto, dannato destino, se è questo che vuoi. Fammi bruciare. Ma io non sarò mai come loro! 

Un mare di singhiozzi iniziò a scuotermi il petto. – Non voglio essere come loro, per favore, no, non voglio, non voglio… Io indietro non ci torno! 

Ma il fuoco che sormontava gli alberi rideva, rideva di pancia e di cuore, soddisfatto come un leone di fronte a una preda che si offriva ai suoi canini affilati. C’erano colpi secchi, uno scoppiettio costante… Ma erano incompleti, erano solo un sottofondo musicale: mancava una voce che gridasse sui loro sussurri. 

Aprii la sua custodia e tirai fuori il violino. Era quella la mia voce, era quella la voce con cui urlavo davvero. Iniziai a muovere l’archetto e a spostare le dita sulle corde: fu come spezzare le catene che tenevano a freno le mie emozioni, fu come lasciarle libere di assalirmi. 

Fate di me ciò che volete. – mormorai. – Sono tutto vostro. 

Ma ero mosso da un’energia febbricitante, e a tratti il violino stonava, a tratti strepitava, e la pressione che esercitavo sulle corde era sempre di più, perché la forza mi esplodeva nei muscoli, la forza era un prurito che mi risaliva le braccia e prendeva il sopravvento. 

Solo il rumore di un leggero rimbalzo, ed ecco: si erano spezzate tutte. – Maledizione! 

Lasciai cadere per terra il violino e, con un ringhio di frustrazione, gli tirai un calcio. Finì tra i rametti di un cespuglio, che erano appena caduti per terra, ancora infuocati: il suo legno venne avvolto dalle fiamme. 

Cos’ho fatto?- Corsi da lui, ma era troppo tardi. Caddi in ginocchio. – Cosa suonerò adesso?

Delle braccia calde mi avvolsero da dietro e mi costrinsero a rialzarmi. – Te ne regalerò uno nuovo, se mi prometti che non lo tratterai in questo modo. 

Lasciami stare, nonno! 

Lui tese le labbra, le sue labbra raggrinzite dalla vecchiaia e da tutti i suoi sorrisi, e mi trascinò lontano dal violino. – Cosa succede, Ethan? 

La mamma e il papà sono andati a bere l’antidoto! Li ho sentiti che parlavano, e volevano farlo adesso… Scommetto che l’hanno già fatto. 

Trasalì e strinse l’impugnatura del suo bastone fino a tendere ogni muscolo, ogni cellula del suo corpo. Il suo viso diventò di un rosso intenso. – Sei sicuro di non aver capito male? 

No, no, no! – urlai, ma poi crollai tra le sue braccia a singhiozzare. – È  troppo tardi, è troppo tardi! 

Mi diede un paio di colpetti sulla schiena, ma non era mai stato così rigido. – Adesso ci parlerò io, a quella pazza di tua madre. La farò ragionare, vedrai. Può sempre smettere di prenderlo… Cosa vuoi che faccia, una sola dose? 

Ma la sua voce tremava, il suo corpo tremava, e anche le fiammelle sugli alberi tremavano. 

Una volta a casa, il nonno e la mamma si chiusero in cucina a discutere. Urlavano. La voce del nonno era amara, aspra di risentimento: non era mai stata così… Stridula, graffiata da un miscuglio di emozioni che mi spremevano il cuore. Sbatteva il suo bastone contro il pavimento. La mamma camminava avanti e indietro per la stanza, e i suoi passi creavano un frenetico rumore di sottofondo. 

Mi lanciai sotto il letto e mi tappai le orecchie. Roan e Grimbald vennero sotto con me. Possibile che non potessi rimanere in pace neanche in un momento come quello? 

Ma… ma… Perché la mamma ha fatto arrabbiare il nonno? – Roan aveva gli occhi sgranati e lucidi. 

Non lo so. – mormorai. 

Grimbald inarcò le sopracciglia. – Sì che lo sai, invece, ma non vuoi dircelo. Beh, peggio per te: lo scopriremo. 

No, peggio per voi. 

Mi tolsi le mani dalle orecchie un istante, per capire se il litigio era terminato, ma un urlo mi squarciò i timpani. – Se continuerai a bere quel veleno, puoi anche dirmi addio: non sarai più mia figlia, d’ora in poi! 

Per qualche settimana tutto procedette tranquillo: la mamma si spostava per casa canticchiando motivetti allegri, e rivolgeva a me e ai miei fratellini sorrisi sereni. Le sue emozioni si erano indebolite solo di poco, anche se aveva continuato a bere l’antiodoto. Ma i suoi atteggiamenti e le sue espressioni si offuscavano sempre di più, come dipinti che perdevano colore e sbiadivano in un grigio indistinto. 

Noi iniziammo a disobbedire di proposito, a non riordinare più la nostra camera, a evitare i lavori di casa, a uscire anche quando lei voleva che rimanessimo a casa a studiare. Per Grimby e Roan era un gioco, ma per me no. Non lo era affatto. All’inizio, per costringerci a seguire le sue indicazioni, ci minacciava, ma senza alzare la voce e senza sfoderare le sue lunghe ramanzine. Non ci proibiva di uscire, o meglio, non a parole, ma chiudeva le porte a chiave. A un certo punto smise di farlo: eravamo liberi di comportarci come volevamo. Ma per me la libertà era un vuoto nel petto, una tela bianca da riempire anche se non avevo più né colori né pennelli. 

Invece di andare a scuola, iniziai a girovagare per il bosco con il nuovo violino che mi aveva regalato il nonno. E poi avevo sempre un fiume di emozioni da portare con me, ovvio. Ma erano schizzi di sangue, schizzi di sangue su una voragine bianca. 

Il papà tornava dal lavoro la sera tardi, e non ci rivolgeva nemmeno la parola. Era freddo. Mi sembrava di vivere in un ghiacciaio. 

Quando tornavamo da scuola, prima che cominciasse a bere l’antidoto, la mamma ci abbracciava e ci chiedeva com’era andata, invece ora ci rivolgeva solo un cenno di saluto, sollevando appena il mento. 

Un tempo realizzava statue che raffiguravano le persone defunte: lei riusciva a scolpire l’espressione e il carattere di chi stava raffigurando anche solo con pochi dettagli. Erano tristi, ma meravigliose. Poi venivano portate nel cimitero della città, in memoria degli abitanti morti, visto che i corpi venivano bruciati nelle fiamme del tempio. La mamma creava le statue con la cera delle loro case ormai sciolte. 

Adesso non lo faceva più: il suo nuovo lavoro era vendere il miele di papà. Avevano licenziato la signora che se ne occupava prima, perché non avevano più i soldi di pagarle lo stipendio. 

E poi l’arte era emozione, l’arte era sentimento, e la mamma non poteva disegnare senza ispirazione, senza l’ardore di un cuore che le muoveva le dita e la trasportava in un sentiero tortuoso che conduceva alla sua anima. Che senso avrebbe avuto, ora? Forse non ce l’aveva nemmeno più, un’anima. Forse l’aveva persa per strada.