Il cielo era un ammasso di nuvole scure, come un soffitto di piombo, e il fumo mi schiacciava il petto. Respiravo a fatica e trascinavo i piedi, avanti, avanti e ancora avanti. Non potevo tornare indietro. La malinconia mi si era appiccicata addosso, come un maledetto vestito troppo stretto. 

Anche Cartagine sembrava del mio stesso umore. Le forme morbide delle finestre, la cera degli edifici che colava dall’alto in rivoli liquidi… Avevano la forma di lunghe dita che scendevano e accarezzavano i muri, oppure lacrime che scorrevano sulle pareti, come se fossero guance dolci ma anche molto, molto tristi. 

Tutti i passanti mi scoccavano occhiate perplesse, forse perché barcollavo, forse perché non camminavo dritto ma seguivo una traiettoria tutta mia, con così tante curve da farmi girare la testa. Ma tanto l’avevo già persa, la testa. 

Le fiamme sui tetti erano più alte del solito, e scoppiettavano, si agitavano, ridevano. Ridevano di me. Oh sì, proprio di me, questo idiota che se ne andava in giro a caso e sarebbe andato a sbattere in qualsiasi pericolo, pur di fare un dispetto ai genitori. 

“Se solo ci fosse qualche sciame anche qui… Oppure un buco bello profondo, così mi ci tuffo dentro. Sì, sì, un bel salto e si risolve tutto! Questa volta la mamma se ne accorgerà. ”  Morsi più forte il taglio che avevo all’interno della guancia. “No, invece. Non lo farà. Posso buttarmi direttamente nella tomba, che non si chiederà neanche perchè non torno a casa.” 

Sputai un miscuglio di sangue e saliva per terra. Mi passai una mano sulla guancia per levarmi di dosso i segni delle lacrime secche. 

Davanti a me, una volta superata quella schiera di case che si abbracciavano a vicenda, strette e strette, c’era uno spazio vuoto. Una bella piazzetta candida, con il lastricato di cera che rifletteva i movimenti del fuoco. Era piatta, tirata a lucido, insignificante. Nessun segno della casa del nonno e nessun segno di lui. Niente.  

Certe persone ci passavano anche in mezzo, camminavano dove un tempo aveva camminato lui: lo conoscevano tutti, in città, per la sua simpatia e il suo cuore buono, ma  nessuno sembrava più ricordarsene, adesso che non c’era più.

Una donna anziana diede una gomitata a un uomo che stava attraversando la piazzola e gli bisbigliò qualcosa, indicandomi. Forse gli stava dicendo che ero il nipote di quel disgraziato che abitava lì, una volta, e sarebbe stato meglio allontanarsi. Si diressero verso la via retrostante. – Bravi, andatevene, sporchi irrispettosi! 

La donna mi lanciò un’occhiata seccata, poi si voltò di nuovo e proseguì per la sua strada. L’uomo la imitò. 

Contrassi i muscoli fino a quando un formicolio mi risalì lungo le braccia. “Non è giusto. Non è giusto.” 

Mi lasciai cadere in ginocchio, ma non fu abbastanza. Appoggiai le mani sul terreno e premetti i polpastrelli sulla cera, per imprimermi sulla pelle la sua consistenza, ma non fu abbastanza. Mi raggomitolai giù, fin quando non la toccai con i gomiti, con le ginocchia, con ogni centimetro del mio corpo, ma non fu abbastanza. Mi presi la testa tra le mani e nascosi il viso, mentre lacrime calde mi scendevano sulla faccia. 

La risata del nonno mi scese nel cuore e lo avvolse in un abbraccio, come quelli che solo lui sapeva dare, stretti da togliere il fiato. E i suoi sorrisi luminosi, e le rughe che le emozioni gli scavavano sul viso, e tutta quella passione per la vita che affiorava dai suoi movimenti… E tutto… E tutto… E tutto perchè sua figlia diventasse una statua senza sentimenti. Ma non era sempre stato così. 

Ricordavo ancora quel giorno, in cui la mamma aveva le braccia incrociate e i polpastrelli che premevano fino a scavare nella carne. – Adesso basta, Ethan! Oggi la maestra mi ha detto che continuavi a disturbare i tuoi compagni e risponderle male. Non farlo mai più. Hai capito? Non devi essere così maleducato. Mettiti a studiare: devi impegnarti di più per la scuola. 

Le feci la linguaccia. – No, no e ancora no! Quegli odiosi canti no! 

La mamma inarcò un sopracciglio. – E allora come farai ai riti? Te ne rimarrai zitto mentre gli altri bambini cantano? Sarebbe una mancanza di rispetto per gli Dei. 

Chiusi il quadernino, con uno scatto brusco che la fece sobbalzare. – E cosa me ne frega degli Dei? 

Le sue guance avvamparono. Mi tirò una sberla. Mi vennero le lacrime agli occhi e mi alzai dal tavolo per scappare. Mi bruciava la pelle, dove lei l’aveva colpita. 

Non dire queste cose, Ethan!

Ma un secondo dopo, mentre sgusciavo via, mi prese per un braccio e si mise in ginocchio davanti a me. 

Non dire più queste cose, per favore.  

I suoi occhi erano al livello dei miei e per poco non ci cadevo dentro. Erano due pozze d’acqua piene di riflessi, così liquide, così dolci… Traboccavano di luce. 

Prometti che sarai più bravo ai riti e obbediente a scuola? 

Questo mai. 

Con l’enorme gioia dei miei sette anni, scappai fuori dalla cucina e andai in camera a chiamare Roan e Grimbald, i miei fratellini più piccoli. Insieme correvamo sempre nelle caverne di cera, dove giocavamo a nascondino per ore e ore senza riuscire a trovarci a vicenda, oppure ci arrampicavamo sulle stalattiti che pendevano dal soffitto, anche se finivamo sempre per cadere e sbucciarci le ginocchia. 

Ma non mi lamentavo mai, io. Ero un bambino coraggioso, di quelli che sorridevano alla bidella, con la testa alta, anche dopo esser stati sbattuti fuori dalla classe. Di quelli che usavano la matita per disegnare nella cera del muro, nei punti più morbidi, dove il materiale iniziava a sciogliersi, durante la lezione. Di quelli che raccoglievano i rametti nel bosco e formavano delle cataste grandissime a cui poi davano fuoco. 

Sarei rimasto lì per sempre, a fissare la legna che si contorceva e diventava sempre più scura, con certi punti in cui nel suo nero intenso si apriva un buco che poi se la divorava tutta, e la riduceva a cenere e braci ardenti. Il fuoco era spumeggiante, il fuoco aveva un volto, e quel volto mi sorrideva. 

E poi correvo nel bosco, correvo e correvo, con le guance arrossate per lo sforzo, il petto scosso dai movimenti frenetici del mio respiro, i muscoli accesi di adrenalina. Il sudore era dolce come miele e la stanchezza aveva una presa salda, che però non mi avrebbe mai ostacolato. 

Le fiammelle sugli alberi, che trasformavano le loro chiome in una colata di cera, non sfioravano nemmeno i rami e mi scorrevano di fianco in lampi deformati. Anch’io ero una saetta: Roan e Grimbald erano piegati sulle ginocchia con il respiro affannato, ma così lontani… Piccoli come puntini. 

Papà, papà, come stanno le api? Hanno fatto tanto miele oggi? 

Lui mi sorrise. – Oh sì, sai quanto ne ho portato giù in città? Tanto così. 

Aprì le braccia come se reggesse un’enorme botte. Mi affacciai alla finestra e guardai all’orizzonte, verso le colline su cui lavorava papà. Lì c’erano le sorgenti di acqua, che veniva scaldata da piccoli fuocherelli che permettevano alla cera prodotta delle api di scendere in ruscelli liquidi. Mio padre si occupava di prendere dagli alveari il miele che mangiavamo. 

Indicai le colline. – Un giorno mi ci porti? 

Papà mi scompigliò i capelli. – Meglio di no. Spericolato come sei, faresti arrabbiare le api e ti riempirebbero di punture. 

Mi appoggiai i pugni sui fianchi e feci una smorfia imbronciata. Ma quando i miei genitori mi mettevano in punizione e mi vietavano di andare nel bosco, correvo dal nonno. Abitava poco distante quindi, anche se la mamma voleva che rimanessi in casa a studiare per i riti sacri, potevo permettermi una piccola fuga. 

L’immagine del fuoco, del suo volto e del suo sorriso mi tornava in mente di continuo. Mi chiamava, mi attirava, mi prometteva il suo scoppiettio nel cuore.  

Il nonno aggrottò la fronte. – E adesso a cosa sta pensando il mio caro Ethan? Su, su, vieni a dare un abbraccio al tuo nonno, prima di tornare a casa.

Mi andai a rifugiare tra le sue braccia, calde di un affetto sincero, e strinsi il suo corpo ingobbito. E quel crepitio, quel crepitio… Era nel suo petto. C’era qualcosa dentro di lui che scottava, ma aveva un sapore di vita pura. 

La mamma dice che sei un disastro e non hai voglia di metterti a studiare per suonare il violino.

È vero, nonno. Troppo noioso… Io voglio andare a giocare a nascondino nel bosco. 

Lui agitò la testa. – Non sei un disastro, Ethan. Io credo che tu possa imparare, se solo capissi quanto è bello. Dimmi un po’, come facevi a sapere che andare nel bosco non era noioso, prima di provarci? Dai, vieni, ti insegno io. La verità è che la tua maestra è una brutta antipatica, vero?

Annuii con enfasi. – Molto antipatica. Una brutta strega, altrochè! Mi punisce sempre. 

Mi diede un paio di colpetti sulla guancia destra e sorrise. Il suo viso era un graffito: ovunque spiccavano rughette sottili, che tutte insieme creavano figure strane, disegni… Quando sollevava le labbra, i suoi occhi luccicavano come due anelli d’oro, contornati da grinze che sorridevano insieme a lui. Il nonno era fatto così: in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo e qualsiasi emozione, strizzava la pelle del viso. Il nonno era fuoco, il nonno era vita, e non si risparmiava, non rinunciava a farsi scalfire, a incidere su di sé i segni di ciò che provava ogni giorno. 

Nonno… Ma a cosa mi serve suonare il violino, se odio i riti? 

–  E perché odi i riti? 

Perchè odio le regole, le odio! – Serrai i pugni. – E lì ce ne sono così tante… 

Il nonno serrò le labbra, ma mi prese un braccio e mi avvicinò alla poltrona su cui era seduto. Mi diede un colpetto sul cuore, e mi si mozzò il fiato in gola: lo scoppiettio, quello del fuoco dentro di lui, passò a me, proprio nel punto in cui mi aveva toccato. Un calore intenso mi partì dal torace e defluì, insieme al mio sangue, a tutto il corpo. Il mio battito accelerò. Tum. Tum. Tum. 

Il violino serve per sentirti libero, Ethan. E anche gli Dei. Loro sono i nostri sentimenti, e a volte non sono belli, a volte sono sgradevoli, a volte ci fanno stare male, ma noi siamo umani, Ethan, e ne abbiamo bisogno. Ne abbiamo bisogno per essere ciò che siamo. 

Continuai a guardarlo, con gli occhi sgranati. Di cosa stava parlando? I sentimenti… Libertà? Io ero libero solo quando correvo nei boschi o giocavo a nascondino nelle grotte.  Il giorno dopo tornai a casa sua, con quel violino che non ero mai riuscito a suonare senza che strepitasse come una bestia inferocita, e mi fece lezione. Un giorno dopo l’altro, la fatica e i brutti versacci del mio strumento, che non esitava a lamentarsi se non lo maneggiavo nel modo giusto, diminuirono. Il nonno sorrideva di gusto per i miei progressi, stropicciando gli occhi. Sembravano due lucciole nella notte. 

A un certo punto, quando conoscevo le note dei brani a memoria, le emozioni guidavano le mie braccia mentre muovevo l’archetto, spostando le mie dita sulle corde, e la musica mi vibrava nel cuore. Avanti e indietro, avanti e indietro, e saltavo sul pentagramma, rimbalzavo sulle righe e poi mi tuffavo negli spazi bianchi, rotolando insieme alle note, e prendevo il volo. 

Mi appoggiò la mano sulla spalla. 

Sei già andato sopra le righe, Ethan.

Eh? 

Stai già scappando oltre le solite litanie dei riti. La tua musica diventerà la ribellione, la voce che grida ciò che nessuno vuole sentire. 

Tornai al presente. Ero ancora sdraiato a terra, ma chissenefrega. I passanti potevano anche calpestarmi, se volevano.

-Mi manchi, nonno. 

Avevo cercato la mia ribellione, avevo gridato con tutta la mia voce, ma mi ero spelato la gola e basta. – Mi dispiace così tanto… Continuo a sbagliare. 

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